Prendi I Goonies, E.T., Fringe e tante altre opere dagli anni 80 in poi, o anche solo ambientate in quell’epoca come Super 8 di J.J. Abrhams, perché volendo andare di citazioni se ne contano a decine lungo tutta la storyline di Stranger Things, alcune dichiarate dagli autori altre a discrezione della cultura e della fantasia del singolo spettatore, e metti tutto in un frullatore. Quando quello che ne esce assomiglia di più a I Goonies la serie sta in piedi ed è piacevole, quando si va verso E.T è di sicuro ancora sopra la media, quando scade in Fringe, sarò un po’ cattivo, ma l’effetto è quello dell’astronave che, altrove, ad un certo punto appare sopra il cielo di una cittadina del Minnesota e che, criticatemi pure se continuo a dirlo, è il puro atto di arroganza di due produttori che avendo già ottenuto tutto dalla loro carriera sembrano due eroinomani in cerca di qualcosa di ancora più forte e per un attimo si dimenticano di chi sta dall’altra parte dello schermo.
In Stranger Things invece non c’è arroganza, ma semplicemente un po’ di inesperienza che si innesta su una qualità realizzativa invidiabile, per nulla moderata dagli immensi budget a disposizione di Netflix che è ancora in fase di start up e quindi può spendere molto più di quello che incassa, perché, se non l’avete ancora capito, siamo in un momento televisivo irripetibile, che solo un cambio di tecnologia può consentire, tra venture Capital che hanno fame di diventare l’Amazon del broadcating e TV tradizionali che non ci stanno, almeno quelle americane, a rassegnarsi al livello qualitativo delle telenovele sudamericane, e dico momento televisivo solo per semplificazione, visto che definire televisione Netflix torna utile per spiegare di cosa si tratta ai nati prima della guerra, ma in realtà sto parlando d’altro.
Volendo fare un facile paragone tra Stranger Things e The Americans, visto che sono entrambi ambientati nello stesso periodo, nel primo non si vede nessun tentativo nelle scene girate in esterno di restringere le inquadrature per lowcostizzare la produzione, cosa che nel secondo, se uno proprio sta a vedere, non si può dire, anche se non sto parlando della fiction della RAI sul personaggio degli anni 70 che pretende di ricreare Roma quarant’anni fa limitandosi a parcheggiare una 500 davanti ad uno dei rari muri della città che oggi non sono infestati da scritte.
Scegliere 2 icone anni 80, come una Winona Ryder che riazzecca una produzione dopo 20 anni e Matthew Modine i cui capelli bianchi ci ricordano quanto vecchi siamo diventati, è la prima mossa giusta della produzione. Esplorare quella provincia americana che da Donald Trump in poi è diventata protagonista delle cronache, è un secondo elemento di differenziazione che, tornando alle citazioni, mette la serie in relazione con lo Stephen King di Stand By Me e anche con il David Lynch di Twin Peaks, per quanto le cose, viste dall’altra parte dell’oceano, siano talmente semplificate da non notare che tra l’Indiana e lo stato di Washington ci siano solo 4 mila chilometri di distanza.
Quando parlo di qualità realizzativa mi riferisco anche ai particolari, che non sono per nulla ininfluenti. Dato per scontato da un ventennio a questa parte che i diritti di trasmissione di canzoni famose non sono più solo una prerogativa di cinema e pubblicità, perché da ex uomo di televisione vi informo che mandare in onda Should I stay or should I go costa alla produzione come un episodio di Distretto di Polizia, la scelta della colonna sonora originale è una delle migliori che si siano sentite da 10 anni a questa parte, perché aldilà della qualità compositiva, in una serie ambientata negli anni 80 viene facile solleticare la nostalgia dello spettatore con canzoni che gli ricordano quand’era giovane. Quello che non è facile è trovare invece un suono che contestualizza un’epoca attraverso note sconosciute, e i creatori di Stranger Things ci riescono perfettamente fin dalla sigla, oltre che con l’audio anche con la scelta di un font, sì esatto di un font gratuito, a testimonianza che la qualità non è solo una questione di budget, che sembra uscito direttamente da una puntata de L’Ispettore Tibbs.
Il giudizio finale è che si tratta di una serie imperdibile per chi è nato a ridosso degli anni 80 come me, nonostante alcune scene inspiegabili in cui manca solo che scenda un’altra astronave a cercare di mettere ordine ad una storia che ha delle scene inverosimili, non tanto per il paranormale ma per la logica delle scelte prese dai protagonisti, ma se questo è il prezzo per ritornare per un attimo ai bei vecchi tempi in cui i cattivi erano i Russi e li vedevi solo in televisione e i ragazzini camminavano per strada senza lo sguardo fisso allo smartphone la cosa si può tranquillamente sopportare.